Quinto studio sulla lettera ai Romani

Dal capitolo 4: 23-25: (scheda 1) Con questi versetti finisce questa parte della lettera ai Romani, dal capitolo 5 in poi inizia una nuova parte.    Non poteva finire che con una chiusa cristologica.    Tutto ciò che è stato detto di Abramo non lo si è detto per un amore della storia.    C’è anche quello, ma non è soltanto quello.    Di Abramo ci interessa aver capito quanto sia la fede a giustificare l’empio.    Ed ora si può quindi fare l’equivalenza: così come Abramo è stato considerato giusto per la sua fede, così anche noi lo siamo per la nostra fede in Cristo.

Come Abramo si affidò ad una parola e la seguì, così anche noi ci affidiamo ad una parola, contro speranza e in speranza, che dice, nonostante l’avversità delle apparenze, che quella morte non era una morte qualunque, ma una morte per.    Una morte per le trasgressioni.    Una morte per ciò che divide Dio dall’umanità.    Una morte per una condizione tragica e senza speranza dell’umanità.

Non solo.    Ma che colui che è morto in quel modo è risorto.    Fede nella resurrezione!    Chi si affida alla resurrezione, si affida al potere di Dio di riportare ad essere ciò che non è, quindi al potere della giustificazione (poiché noi siamo soltanto se siamo in relazione con Dio).

Romani 5:1-11

1.    (scheda 2) pace, la vera pace, è frutto della nuova relazione con Dio (pros ton Theon).    In questo solo versetto ci sono tutte le parole più importanti del Cristianesimo: giustificati, fede, pace, presso Dio, Gesù Cristo.      Costruite una frase con queste parole e avrete: giustificati per fede abbiamo pace presso Dio in Gesù Cristo!    Ed ecco il Cristianesimo!

Il tema pace ci è molto a cuore in questi tempi.    Eppure nel vs.1 la pace non è qualcosa che si costruisce, che si conquista.    C’è un indicativo che indica un dono: abbiamo pace.    Potremmo dire: riceviamo la pace.    C’è una pace che precede le nostre quotidiane paci, una pace con la P maiuscola.    Una pace che sorregge le nostre paci.

2. (scheda 3) Il credente ha un accesso, attraverso Cristo, nella fede [gli ingredienti sono sempre gli stessi, non c’è da sbagliarsi]; di che accesso si tratta? E’ l’accesso della libertà, che ti fa stare nel potere di influenza della grazia.    Per entrare nella stanza della grazia c’è una porta, il credente ha la chiave: la fede in Cristo!    Il termine greco PROSAGOGHE’ è un termine tecnico che indica l’accesso senza impedimenti al santuario, è con un verbo (eschékamen) che vuol dire: abbiamo avuto, ma continuiamo ad avere.

Il “qui io sto” del credente non è una semplice occupazione di spazio.    E’ il “qui io sto” che dà una dignità, è il poter stare in piedi, è ancora una volta la libertà!    Per questo motivo il “qui io sto” si lega con il vantarsi [nel suo senso più positivo possibile]. PACE E VANTO. Il vanto del credente è lo stare in piedi di fronte al mondo che lo vorrebbe in ginocchio.    E’ un vantarsi non di se stesso, ma del Signore che lo ha liberato e gli ha restituito il vanto di poter essere di fronte al suo Signore.    E’ il vanto della creatura che ha ritrovato l’immagine di se stessa, quindi l’immagine che Dio le ha donato.

E’ un vantarsi sulla speranza, un vanto che poggia sulla speranza.    Un vanto che vive nell’attesa della gloria di Dio, cioè la manifestazione completa di Dio.    In questa attesa il vanto non può diventare pretesa.    Anzi, è un vanto inteso come resistenza, lotta, conflitto con l’altro vanto, quello che non vuole affidarsi a Dio che abbiamo incrociato al capito 3.    La tensione tra il presente –in greco si tratta di un perfetto per alcuni di questi verbi – (abbiamo pace, accesso*, stiamo nella grazia* e ci vantiamo) e il futuro implicito nell’immagine della speranza nella gloria di Dio.

3-5. (scheda 4) Questi versetti danno al vanto il tono giusto, la sua reale dimensione, la sua propria condizione.    Il vanto della gloria di Dio è inseparabile dal vanto della sofferenza.    Il vanto cioè di vivere all’ombra della croce.    Il credente sa che la sofferenza di Cristo è la conseguenza di una lotta contro il male in favore dell’umanità e della sua umanizzazione; Cristo, nel suo opporsi al male, soffre.    Nel suo vincere il male è abbattuto, vinto.    Nel suo trionfare è crocifisso.    Il credente sa che essere discepoli di questo Cristo produce la sofferenza, perché il male già vinto è ancora, per breve tempo, libero di manifestare il suo terribile volto.    Il credente, che sta dalla parte di Cristo, non può rinunciare a partecipare a questo scontro.    Thlipsis è l’afflizione della fine dei tempi!

Anzi il vanto dà una dignità a questa sofferta lotta, dà una libertà.    La sofferenza è il frutto di una lotta di liberazione alla quale il credente partecipa.    Ed ecco quindi la catena: la sofferenza produce fermezza, tenacia, costanza (è questo il significato di pazienza).    La tenacia la forza di mettere alla prova se stessi [RISPONDERE DI SE’: qui il carattere viene definito come la capacità di rispondere delle proprie convinzioni e delle proprie azioni].    La prova genera la speranza. La fedeltà alla terra, l’attaccamento alla sua propria umana creaturalità, il vivere nel mondo in mezzo ai conflitti senza la fuga; tutto questo genera speranza: cioè la possibilità nel qui e ora di vivere il non più della vittoria di Dio.

La speranza quindi non è l’illusione, il sogno per sfuggire la durezza della realtà, non è la fuga, non è qualcosa che ci confonde [che ci lascia senza conforto, attoniti].    E’ l’energia di Dio che si sostiene “nella selva oscura”, “nella valle dell’ombra della morte”.

Potremmo dire che la speranza si materializza come amore di Dio, come potere dell’amore che sostiene la creatura perché la ama, come forza dell’amore che sorregge la nuova creatura uscita dal grembo della croce.    La speranza che si concretizza come amore è trasportata nella nuova creatura attraverso lo Spirito Santo:    come quei virus che vengono utilizzati oggi nella ricerca per portare nelle cellule malate quei nuovi componenti che riaggiustano la cellula.    Solo lo Spirito di Dio può entrare in profondità.    Giungere alla superficie dell’essere umano non serve.    Bisogna arrivare al suo luogo misterioso.

6-8.    (scheda 5) Ma forse non è ancor chiaro cos’è l’amore di Dio.    Ecco perché questi versetti.    Che non ci sia più alcun dubbio.    Ed ecco perché dire l’amore a partire da Cristo è dirlo nel modo più perfetto: mentre noi eravamo peccatori Dio in Cristo ci ha amati.    Questo è il versetto più bello della Bibbia.    Questo è la summa dell’evangelo.

Lasciamo perdere il vs.7 che è un tentativo di Paolo non tanto riuscito di paragonare l’amore di Dio con l’amore umano [ma poteva riuscire un esempio visto che questi due amori sono imparagonabili?].    I vss. 6 e 7 dicono la stessa cosa con intensità diverse: Cristo è morto per coloro che attivamente erano senza Dio, per coloro che si erano liberati di Dio.    Cristo non è morto per chi, anche se in minima parte, meritasse qualcosa; è morto per chi non solo non meritava, ma agiva attivamente per la distruzione di Dio.

Cristo è morto in un tempo inappropriato, in quel tempo in cui nessuno avrebbe potuto prevedere una cosa del genere, in un tempo inaspettato. Ed è morto “uper emon”, cioè al nostro posto, senza noi, per noi.    Ecco la creazione dal nulla di cui parlava il capitolo 4, il Dio che resuscita i morti.    Ecco il nulla, i morti, noi senza Dio; ecco l’essere, i risuscitati, noi amati da Dio!

9-10.    (scheda 6) La speranza, per mezzo del concreto amare di Dio in Cristo, è una speranza abbondante.    Non annuncia un sopravvivere, ma un vivere che si è già materializzato “ora” attraverso il sangue, cioè attraverso la morte di Cristo.

Il vs. 10 ripete e rafforza il vs.9, richiama anche i vss. precedenti: i senza Dio, i peccatori, i deboli sono i nemici di Dio [che sia chiaro!, se già non lo era].    Questi nemici sono stati riconciliati attraverso la morte [l’unica morte che ha un potere riconciliante, in cui l’ucciso torna in vita per riconciliarsi con il suo assassino], tanto più [ecco la solita sovrabbondanza della speranza] saranno riconciliati nella sua vita risorta.    Riconciliare e giustificare sono sinonimi: l’essere in comunione con Dio!

L’evento della salvezza in Cristo, avvenuto nel suo definitivo “una volta per tutte”, opera attivamente nel credente, per condurlo verso l’eccedenza della speranza.

11.    La sezione che era cominciata con il vanto si chiude con il vanto.    Ed ecco riassunto il contenuto del vanto:    “ora” siamo stati riconciliati!

Romani 5:12-21

12.    (scheda 7) Si introduce, dopo Abramo, la figura di Adamo.    Abramo era colui che aveva creduto nella promessa di Dio. Adamo è colui che, per primo, ha peccato.    Il riferimento ad Adamo era già stato fatto in 1Corinzi (scheda 8).

La morte entra e si espande, pervade, attraversa.    Se per uno solo era entrata, a causa di tutti gli altri si è espansa.    Poteva, una volta entrata, essere isolata e poi aggredita da agenti chemioterapici, bruciata alla radice dalla radioterapia, invece come un tumore maligno si è espanso, ha aggredito i nuovi tessuti, si è moltiplicato modificando il DNA umano.    La morte regna e uccide l’umanità!

Paolo deve quindi con urgenza dirci dov’è l’uscita da questa condizione, deve parlarci della liberazione dal potere della morte.    Sì perché la morte è un potere, non è solo l’individuo a morire, muore l’intero mondo.    Paolo deve dirci in che modo il regno di Cristo, il regno della vita, entra in conflitto con il regno di Adamo, il regno della morte.

(E’ interessante notare che Paolo non si diletta nello speculare sul diavolo parlandoci del peccato: il peccato è umano troppo umano)

Di fronte al vecchio mondo della morte e al nuovo mondo della vita non vi è la possibilità di una posizione neutrale, non vi è alcun limbo (anche perché, attenendoci alla metafora dantesca, com’è vivere in un luogo dove si può desiderare ogni cosa esclusa l’unica per la quale vale la pena desiderare: vedere Dio?).    L’essere umano non può sottovalutare la grande forza che il potere della morte ha di determinare il destino umano: c’è una forza esterna all’essere umano che ne decide la sorte.    E non solo, sembra che la libertà e la responsabilità umane siano asservite ad ingrassare questo destino.    Ci è concessa la libertà di fare del nostro destino di morte l’unico orizzonte, dal datore mortale ci è concessa la produzione infinita della morte: che onore!    È questo il senso di 12d: da una parte vi è un destino, dall’altra ci è una individuale responsabilità! LA FRASE DI PAOLO RESTA IN SOSPESO (anacoluto: infatti basta rivedere la citazione di 1 Corinzi che invece concludeva la contrapposizione Adamo/Cristo in una singola frase) e segue quindi un excursus (i vss. 13-14).

13.    Questo versetto contraddice 4:15 (scheda 10) – poiché la legge produce ira; ma dove non c’è legge, non c’è neppure trasgressione – , ancora una volta!    Sì,ancora una volta Paolo si contraddice quando deve parlare di legge, ogni qualvolta Paolo affronta la sua biografia, ogni qualvolta deve faticosamente cucire la pezza nuova sul suo vestito vecchio.

“Imputare” andrebbe tradotto con “riportato”, nel senso di scritto sulla lavagna, quindi in qualche modo addebitato.

14. La morte regna, ha un potere regale, ha sudditi, ed è un potere tiranno.    La sua data di nascita non è eterna, coincide anagraficamente con la data di nascita e il luogo di nascita dell’essere umano.    Quale onore per l’essere umano l’essere il creatore della sua propria morte, l’essere creatore di una creatura che lo sopraffà.

Da Adamo a Mosè la morte regna indisturbata perché non c’era una legge che la facesse venire allo scoperto.    E tutti coloro che non avevano trasgredito ad un comando, ma avevano comunque peccato vivevano quindi sotto il potere della morte.    Con l’esclusione di Adamo, lui sì che aveva trasgredito ad un comando.

Ma chi è Adamo?    E’ la controfigura di Cristo, la sua scimmiottatura.    E’ colui che ha inaugurato il mondo della morte. Voleva essere il Cristo, ma è stato solo la forma vuota di colui che deve venire (ed è venuto), colui che inaugura il mondo della vita.

15.    Tra Adamo e Cristo non vi è simmetrica corrispondenza. Nemmeno tra la trasgressione e la grazia.    Non sono la stessa cosa, c’è un’asimmetria dovuta all’eccedenza della grazia.    Questa è una concezione tipicamente apocalittica: la fine dei tempi è infinitamente superiore al tempo della caduta.    Dio crea qualcosa di nuova (quindi non è neppure un’apocatastasi).    Il Cristo che libera l’umanità è infinitamente superiore ad Adamo che ha inaugurato la schiavitù umana.

Soltanto il dono poteva liberare l’umanità dal potere della morte, solo un potere più forte così ben rappresentato dal dono.    Il potere del dono contro il potere della sottrazione.    E cos’è il dono se non il donatore che si dona, la grazia di carne di Dio?

16. Ecco il dono che opera diversamente dal peccato e dal giudizio.

Ancora una volta emerge un’immagine del mondo nella sua cruda realtà, un’umanità in preda al caos, non vi è alcuna idea di un mondo comunque moralmente accettabile.    La condizione è disperata, vi è solo trasgressione e giudizio (l’essere abbandonati alla propria condizione).

Questo mondo senza speranza è invaso dal potere della grazia.    In speranza, contro speranza, grazie al potere della grazia.

17.    Finalmente la frase sospesa del vs. 12 si chiude, l’anacoluto è risolto.    Attraverso il “molto di più” di Cristo il potere della morte è vinto.    Avviene il passaggio attraverso quel dono e il suo potere di giustificare dalla sfera della morte alla sfera della resurrezione.    Non siamo già risorti (così pensavano alcuni credenti al tempo di Paolo), ma possiamo già partecipare alla vita del nuovo mondo.    Non    dobbiamo più essere strumenti della morte perché possiamo essere strumenti della vita.

Ecco che ci viene restituito il mondo, grazie a Cristo; ci viene donata una nuova creaturalità che ci permette di stare di fronte a Dio.    Il mondo diventa il luogo sì sopraffatto dalla morte ma anche e innanzitutto aggredito dalla vita e dalla libertà.    Qui inizia la nostra storia, la storia della resistenza, la lotta contro la morte.    La storia del mondo o è storia di morte o è storia contro la storia della morte.

18.    Questo versetto riassume ciò che è stato detto finora (scheda 12).    Il “tutti” ci ricorda la dimensione universale del peccato, ma anche la dimensione più che universale della grazia.    Mai il credente può dimenticare la propensione universale del vangelo.    I ghetti dei salvati cristiani fanno ridere il mondo.    I cristiani debbono farsi rappresentanti dell’universalità di Dio.

Il regno della vita non è il frutto di un nostro sforzo.    Noi militiamo nel regno della vita, ma non ne siamo né i fondatori né i conquistatori.    Il regno c’è, il regno trionfa, noi possiamo decidere soltanto se esserci in questo regno, oppure no.    L’alternativa è restare nel regno della morte.

Il regno della vita è dono assoluto di Cristo!    Un dono può certamente essere rifiutato, ma non per questo perde la sua natura di dono.    Resta un dono che cerca altri che vorranno accettarlo.

19. E’ l’obbedienza di Cristo che ci salva (scheda 13).    L’obbedienza fino alla croce.    La nostra obbedienza è soltanto a colui che è stato obbediente (è una umana obbedienza la nostra, perché imita quella di Gesù).    Obbedienti all’obbediente, siamo partecipi alla libertà di Dio.    Noi che a causa delle trasgressioni eravamo diventati peccatori, ora attraverso l’obbedienza diventeremo giustificati.    Il futuro ci ricorda che siamo ancora in lotta, ancora al fronte, ancora di fronte ad un dono che non abbiamo meritato a qualcosa che non ci appartiene e che dobbiamo nuovamente accogliere.

20. Ritorna la questione aperta al vs.13 (scheda 14).    Vi ricordate come Paolo aveva insistito sull’impossibilità della legge di farci ottenere qualche Cristo ci dona?    La legge non fa che, svelando il peccato, radicalizzarne la sua forza.    Farlo abbondare, affinché la grazia possa sovrabbondare.

21. Paolo conclude ordinatamente la sua riflessione (scheda 15), una riflessione iniziata al vs. 12: al potere della morte si contrappone il potere sovrabbondante della vita!    (ina va tradotta come consecutiva).

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