Sesto studio sulla lettera ai Romani

Romani 6:1-11

Prima di affrontare il capitolo 6 sarà necessario fare due passi indietro. Ormai avete capito che non si può andare avanti se non si fanno dei passi indietro. Il primo passo riguarda una questione che ha sollevato Carlo sull’uso della parola pazienza/perseveranza. Avevamo trovato questa parola al capitolo 5, vs. 3 (scheda 1).

Qui la parola tradotta con pazienza è un termine greco (upomoné). La parola proviene da verbo restare (menein), quindi assume il significato di restare in un luogo durante un attacco, restare fermo, resistere. Era considerata una virtù tra i greci: la coraggiosa resistenza. Diversamente da pazienza che ha un significato passivo, il nostro termine ha invece un significato attivo: è un attiva ed energetica resistenza nei confronti di poteri ostili. Così viene utilizzato nel NT (scheda 2).

Luca 8:15 E quello che è caduto in un buon terreno sono coloro i quali, dopo aver udito la parola, la ritengono in un cuore onesto e buono, e portano frutto con perseveranza.

Matteo 10:22 Sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato.

Romani 8:25 Ma se speriamo ciò che non vediamo, l’aspettiamo con pazienza.

Romani 15:5 Il Dio della pazienza e della consolazione vi conceda di aver tra di voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù,

1 Tessalonicesi 1:3 ricordandoci continuamente, davanti al nostro Dio e Padre, dell’opera della vostra fede, delle fatiche del vostro amore e della costanza della vostra speranza nel nostro Signore Gesù Cristo.

L’altro punto che volevo sollevare ci porta già dentro al nostro testo:

vss. 1-2

Paolo lo aveva detto: dove il peccato abbonda la grazia sovrabbonda: Romani 5:20 (scheda 3). E ora qualcuno lo accusa: quindi conviene rimanere nel peccato affinché la grazia sovrabbondi. Quante volte è stata sollevata questa obiezione a Paolo, ma anche a tutto il Protestantesimo. Paolo risponde, in modo chiaro e incontrovertibile: Non è possibile! (scheda 4).

Ma quel che ci interessa non è semplicemente l’impossibilità, la quale è già una gran cosa. Ma la motivazione: noi siamo morti al peccato. Ecco dunque il nuovo tema della lettera ai Romani, la trasformazione. Noi siamo stati trasformati, non nelle apparenze, ma nella sostanza. E questa trasformazione che ha ovviamente conseguenze anche nella nostra vita non può che essere descritta con un termine radicale: morte. Noi siamo morti. E un morto non può peccare.

Vss. 3-4 (scheda 5) Questa trasformazione è già avvenuta. Noi siamo già morti, sepolti ed è anche già iniziata una nuova vita che ci porterà al giorno della risurrezione. E tutto questo è evidente in quel sacramento che si chiama battesimo.

Cos’è il battesimo? Certo siamo di fronte ad una domanda molto seria, attorno alla quale le chiese cristiane sono ancora molto divise. Si possono riassumere tre posizioni:

1. quella cattolica: il battesimo è un sacramento attraverso il quale il neonato è strappato dal potere del peccato originale. Così si legge nel Catechismo:

Poiché nascono con una natura umana decaduta e contaminata dal peccato originale, anche i bambini hanno bisogno della nuova nascita nel Battesimo per essere liberati dal potere delle tenebre e trasferiti nel regno della libertà dei figli di Dio, alla quale tutti gli uomini sono chiamati. La pura gratuità della grazia della salvezza si manifesta in modo tutto particolare nel Battesimo dei bambini. La chiesa e i genitori priverebbero quindi il bambino della grazia inestimabile di diventare figli di Dio se non gli conferissero il Battesimo poco dopo la nascita.

2. quella riformata: il battesimo è l’annuncio della grazia preveniente e quindi bisogna amministrarlo ai neonati perché essi, nella loro passività, meglio descrivono il significato di questo gesto.

3. quella battista: il battesimo è la testimonianza della fede, la risposta del credente al battesimo dello Spirito.

Sono tre posizioni abbastanza diverse tra di loro. Io vi sembrerò abbastanza eretico, ma credo che la soluzione sia la sintesi di tutte e tre le posizioni: il battesimo ha un potere del tipo sacramentale che strappa l’uomo (se Dio lo vuole) dal potere del peccato e quindi è l’annuncio della grazia preveniente, ma annuncio che può solo rivolgersi a chi può corrispondergli. Al suo sì Dio vuole il nostro sì! Che il battesimo abbia un potere mi sembra implicito nella espressione di Paolo: battezzati in Cristo siamo battezzati nella sua morte.

La costruzione di questo versetto 4 è un capolavoro teologico di Paolo. Soprattutto il “così come… e il così anche…”. Non è il “quanto più… tanto più…” del peccato e della grazia. La resurrezione non è un’eccedenza rispetto alla crocifissione. La croce e la resurrezione sono uguali.

Purtroppo in qualche chiesa di Paolo qualcuno aveva adottato la dicitura: quanto più siamo morti n Cristo, tanto più siamo risorti in lui. In questo eccesso di entusiasmo la croce è solo un atto da superare, un incidente di percorso sopraffatto dalla resurrezione. Non è il crocifisso con i suoi segni della croce ad essere risorto.

Succede così anche ai credenti, morti in Cristo e velocemente risorti,vivono nella totale libertà e nell’anarchia assoluta. Fanno ciò che vogliono e dimenticano i segni della croce, la loro materiale creaturalità, che non va più vissuta nell’angoscia adamitica, ma ricompresa come unica condizione per una giusta relazione con Dio.

Ed ecco perché Paolo costruisce meravigliosamente il versetto: non dice, come ci aspetteremmo, “morti in Cristo, risorti in Cristo”, ma “morti in Cristo, camminiamo in novità di vita”. Siamo sotto il potere della resurrezione, certo!, ma non siamo risorti. Siamo in cammino. L’obbedienza del credente diventa un’anticipazione della resurrezione, segno di una potenza già attiva e presente.

Così Paolo si esprimeva anche in II Corinzi 13:4 2 Infatti egli fu crocifisso per la sua debolezza; ma vive per la potenza di Dio; anche noi siamo deboli in lui, ma vivremo con lui mediante la potenza di Dio.

Vs. 5 (scheda 6)Difficile passo, ma che in realtà ribadisce ciò che già è stato detto: il credente attraverso il battesimo attualizza nella sua propria esistenza la morte del Golgota. E’ il momento dell’individualizzazione. Ora che siamo morti in Cristo, non siamo più prigionieri della morte. Aspettiamo la resurrezione dei morti e intanto viviamo sotto l’influsso della resurrezione di Cristo.

Vss.6-7 (scheda 7)Paolo usa l’espressione a lui tanto cara: essere crocifissi con Cristo. Ciascun credente vive in modo unico e irripetibile l’essere crocifisso con Cristo. Cioè l’essere separati dal potere della morte. La crocifissione è il momento in cui il credente inizia un processo di autenticità. Non vive più asservito. Si è liberato dai pesi. Il vecchio uomo, l’uomo schiavo, è crocifisso; è iniziato il movimento verso e nella libertà del cristiano, così si era espresso anche in Galati. (scheda 8).

Vs. 8 (scheda 9) Il versetto ripete l’affermazione del vs.5; in più qui c’è la parola: crediamo. Ci affidiamo, abbiamo la speranzosa fiducia che si poggia su Cristo.

Vss.9-11 (scheda 10) Cristo ha vinto la morte. Non più lo signoreggia. Certo pensare che per noi Cristo ha lasciato che la morte lo signoreggiasse, deve spaventarci. Cristo è morto una volta per sempre. Non c’è alcun motivo per ripetere la sua morte. Essa è stata sufficiente, una volta per tutte.

Ma ancora una volta, quella morte deve diventare attuale nella nostra vita: perché soltanto morti si è viventi! Qui giunge quindi l’imperativo: reputate voi stessi, considerate voi stessi, ritenete voi stessi… C’è sempre un nesso tra l’indicativo: noi siamo morti in Cristo e l’imperativo: ritenetevi morti in Cristo. E ora l’imperativo fa spazio ad una serie di esortazioni.

Romani 6:12-23

vs.12. (scheda 11) Ed ecco un altro imperativo: non regni. La morte e il peccato sono sinonimi. La morte regnò, così si leggeva in 5:14; ora è il turno del peccato: “Non regni”, dice Paolo. La morte e il peccato hanno il vizio di regnare. Ed ecco quindi la necessità della grande resistenza: il peccato e la morte non regnino. E dov’è la linea del fronte se non il nostro corpo? Quindi la nostra esistenza!

Certo c’è da accettare una difficile situazione: la nostra esistenza è mortale e quindi la morte sembrerebbe avvantaggiata se dovessimo resisterle per la sola forza del nostro corpo mortale. Diciamolo in altro modo: non sarebbe per niente possibile se a resistere al potere della morte dovesse esserci la nostra esistenza mortale che è invece più un’alleata che una oppositrice. La morte non può che regnare su corpi mortale. Ma a noi è chiesto di non concederle questo affare così naturale.

Se il Cristianesimo deve fondare un’etica cristiana della resistenza a partire dalla nostra mortalità, non ha alcuna speranza. Se l’imperativo è affidato alle nostre forze e se solo esso decide le sorti della battaglia, ebbene non c’è che la sconfitta. Si perde per eccesso di autodifesa. La morte con i suoi desideri di morte ha senz’altro la meglio sul nostro corpo mortale. E anche non lasciarla regnare su di noi non è sufficiente, perché qualcos’altro regnerebbe che potrebbe anche essere peggio. Noi non possiamo restare senza qualcosa o qualcuno che regni su di noi. E allora l’unica possibilità per noi è organizzare una resistenza soltanto a partire, sempre e di nuovo, dalla potenza della giustificazione, dall’affidarsi all’agire di Dio.

Lo slogan del Cristianesimo non è: diventa cosa tu ora puoi diventare; ma: diventa ciò che sei già realmente per opera di Dio. La libertà dal potere del peccato è attuata dall’atto di Dio e il credente può mantenerla nell’obbedienza e nel servizio. La resistenza al potere della morte dipende dal fatto se Cristo resti o meno il Signore sopra di noi. E il Signore resta Signore soltanto per colui che lo serve.

vs.13. (scheda 12) Ormai gli imperativi abbondano, siamo già a 4: considerate voi stessi; non regni su di voi; non prestate le vostre membra; presentate voi stessi. Si tratta di due imperativi al positivo che racchiudono due imperativi al negativo. Le membra non sono letteralmente le parti del nostro corpo. Esse si riferiscono alle nostre capacità. “Strumenti” andrebbe tradotto con “armi”. Non mettere a disposizione le vostre capacità come armi per il peccato: ecco il significato di questo versetto.

I credenti vengono definiti come di morti fatti viventi. Qui il “come” è importante perché non ci fa dimenticare la provvisoria nostra partecipazione alla potenza della resurrezione. Siamo già catturati dalla potenza della nuova vita, sono già innestati, eppure sono ancora soltanto “come”. Il “come” è lo spazio che il credente riceve in dono per obbedire. E’ il luogo della sua responsabilità.

E’ senz’altro un capolavoro il passaggio dal presente: “non mettere a disposizione”, all’aoristo: “mettete una volta per tutte”.

Vss.14-15. (scheda 13) Regnare è signoreggiare. Tiranneggiare. Opprimere. Soltanto chi è sotto la grazia può dire: non signoreggiarmi, e questa semplice affermazione ha un potere effettivo! Soltanto sotto la grazia, perché è la grazia che ha tale potere, non sotto la legge, perché la legge svela il peccato, ma senza vincerlo. E il peccato svelato è ancor più drammatico del peccato velato.

Chi è sotto la grazia è libero. Qui non c’è bisogno di grandi dissertazioni sulla libertà. Paolo intende la libertà come liberazione dai poteri e dalle necessità che il peccato e la morte così bene manifestano. Ed è attraverso Cristo, il libero che si fa obbediente, che noi obbedienti siamo resi liberi. Ma perché viene usato il futuro: non avrà più potere su di voi? Kaesemann risponde dicendo che questo futuro racchiude la promessa e il comando: la promessa è che non regni e il comando è: non deve.

vss. 16-18. (scheda 14) Ciò che noi facciamo di noi stessi, siamo! La nostra vera e profonda essenza muta in base la nostro agire. L’essere è nel divenire. Qui si dovrebbe comprendere quanto la provvidenza di Dio non è il semplice mantenere le cose così come sono, ma adeguarle sempre e nuovamente nelle nuove condizioni in cui l’umanità si trova…

Se noi siamo ciò che di noi facciamo, ci rendiamo conto quanto drammatica sia la nostra situazione! E che grande opportunità ci viene offerta nel diventare servi di Dio.

Grazie a Dio! Bisogna dire grazie. Il domino del peccato è finito. La seconda parte del vs.17, secondo alcuni è una glossa; e in realtà il pensiero fluisce molto meglio se dopo: “Noi eravamo schiavi del peccato”, segua il vs.18. Se invece non la si considera una glossa, si può pensare a Paolo che fa riferimento ad un credo battesimale, una tradizione alla quale il battezzando aderisce.

Qui emerge chiaramente quanto il cuore umano è chiamato da Dio a rispondere nell’atto del battesimo. Dio vuole che ci sia una persona che obbedisca col cuore a ciò che gli è annunciato attraverso l’acqua.

Il credente liberato è schiavo della giustizia. La nuova libertà è serva della giustizia. Non c’è niente a che vedere con la nostra libertà che è invece superamento d’ogni vincolo e d’ogni limite. La libertà di cui Paolo parla è una libertà che si sa vincolata alla giustizia di Dio.

vs. 19. (scheda 15) Ci siamo abituati ormai agli improvvisi scatti di Paolo: Eccone uno: si sente costretto ad usare un linguaggio umano troppo umano; Paolo deve parlare così a motivo della debolezza. Quale debolezza? La debolezza dei forti che non vorrebbero essere chiamati servi, che non vorrebbero avere vincoli. Ed è per questo che il libero Paolo insiste sulla schiavitù del credente. Colui che è stato amato svuota se stesso e diventa servo: ed è un imperativo, prestate!

Troviamo qui una parola che dal cap.12 in poi giocherà un ruolo importante nell’esortazione di Paolo: santità. Santificazione significa un essere per Dio che si manifesta corporalmente nel mondo secolare e in opposizione alla tentazione perché in Cristo Dio ci pone per mezzo della sua grazia sotto la Signoria di lui. La giustificazione vuole tutta la persona, in tutte le sue possibilità e relazioni e quindi anche nella realtà del mondo. E attraverso i suoi servi che Dio in Cristo confronta il mondo. “Commettere l’iniquità” è qui intesa nel senso di quella libertà capricciosa e arbitraria.

Vss,20-23. (scheda 16) Ecco cos’è l’iniquità: la libertà dalla giustizia, non libertà nella e della giustizia. Una libertà che si libera della giustizia e quindi di quelle libere relazioni che Dio istituisce in Cristo. La libertà dalla giustizia è la solitudine del peccatore.

Ci vuole veramente un cambiamento nella vita per vergognarsi dei propri frutti. Per staccarsi da essi, contrapporsi ad essi. Frutti che avevano uno strano potere, erano i semi della morte. Ecco l’alleanza tra noi e la morte: noi offriamo i semi e la morte i frutti!

Ed ecco l’opposto al vs.21. Ecco il presente. La nuova realtà. E quanto è bella in confronto all’orribile immagine del vs.21. Ecco di nuovo: l’ora però. C’è una rottura che il battesimo ha rappresentato nella vita del credente. E benché, come abbiamo già visto, il credente vive ancora nel suo corpo il conflitto, c’è già comunque una rottura, una novità. Il credente deve costantemente vivere alla luce di questo evento.

Ancora una volta l’ultimo versetto, come già in precedenza, riassume l’intero capitolo. Ecco riassunto il grande contrasto, la grande vera questione: la vita e la morte.

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